MARIO DE LUCA

Critica del Prof. Calabrese

Chissà dove torneranno a farsi cosa viva nel divenire ch’è fuga e ritorno, i vuoti corpi irretiti nei disastri che hanno loro sottratto tanti brandelli della pelle distintiva. Nelle macchine anatomiche, utili alla scienza medica del secolo dei Lumi, almeno lo scheletro umano mostrava modellati nella cera sistemi arteriosi e venosi, che erano reticolo e labirinto di fili di vario spessore. Non c’era l’umana carne, ma la certezza dell’esistenza attraversata si evidenziava nel mistero del sangue che rigenera la vita nella vita. Mario De Luca modella nel guizzo distintivo altri involucri, svuotati dall‘interno, e quindi dell’interiorità, rappezzati tra brandelli residui e restauri, eredi del baratro da cui risale sempre ferito e sporadico l’uomo. Almeno fosse umano, oltre la spazialità complicata nella multidimensionalità.
Agli occhi tornano all’impatto note fisionomie distintive dei moti animali, significativi anche di canoni comportamentali, transiti nella fisicità, effetti di pieni e vuoti nei quali grumi d’opacità si alternano alla luce naturale e alla memoria dell‘oro che propone il senso dei tempi lontani, vagheggianti nella lode del passato. Ci furono età auree, bronzee, ferree. Avvaloravano l’umana specie ridotta nel nostro tempo a subire una sorta di restauro conservativo. Lo attestano le scomposizioni di membra in andamenti di aggregazioni di metalli distanziati dai reticoli o aggregati in saldature, valide a serbare l’idea generale di una perduta compattezza.
Sdruciture e squarci in andamenti curvilinei, sfaldature dell’umana sostanza nell’inconciliabilità tra natura e cultura, dicono l’anatomia metamorfica degli automi che hanno rinunciato, e non per la loro volontà, al cervello, alla spina dorsale, alle preesistenze di cui si sono smemorati. Scultore per vocazione e creativo d’altro sentire, De Luca ritrova tasselli polimaterici, recupero di fusioni, spesso organici a lampadari. Proprio questa peculiarità allude alla luce che si perde nel transito da vuoto a vuoto. L’uomo dal cervello liquefatto non pensa, non ricorda: ha disimparato a farlo, pertanto ha negato a se stesso la speranza. Intanto un orafo con vocazione monumentale, devoto dell‘uomo e della natura, propone nel suo tempo magnifiche sculture che hanno sapore d’archeologia futura.